1914-1915: intervento o neutralità? / a cura di Enzo Ronconi

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Collana / Collezione

Le fonti della storia / 6

Luogo di edizione

Firenze

Paese

Italia

Consistenza rilevata

Quantità
1
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cartella/e

Abstract

La notizia dell’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono imperiale austro-ungarico, e di sua moglie, avvenuta a Serajevo il 28 giugno 1914 per mano di un affiliato di un’associazione terroristica serba, non destò in Italia l’immediata sensazione di un imminente pericolo di guerra. Fra le righe dei primi commenti giornalistici si poteva anzi avvertire una sfumatura quasi di sollievo per la provvidenziale scomparsa dalla scena politica europea di un personaggio molto discusso anche in patria, tipico rappresentante dell’Austria militarista e clericale, intransigentemente ostile all’Italia. Per scongiurare l’eventualità di un ricorso alle armi nella soluzione dell’incidente si faceva assegnamento sull’opera della diplomazia, già a più riprese collaudata fra il 1906 e il 1913, in occasione delle periodiche crisi marocchine e balcaniche, nel compito di accordare le voci minacciosamente discordanti delle grandi potenze. In realtà, la tensione da tempo accumulata tra i due blocchi contrapposti, l’austro- tedesco e il franco-anglo-russo, stava precipitando verso un tragico sbocco, come diventò chiaro dopo l’invio dell’ultimatum austriaco alla Serbia del 23 luglio. Di questo passo gravissimo il governo italiano fu informato dagli alleati della Triplice solo il giorno seguente: l’alleanza italiana con gli imperi centrali, a cui eravamo legati fin dal 1882, confermava anche in questa circostanza la sua precarietà. L’ambiguo comportamento dei governi di Vienna e di Berlino nei confronti del minore alleato era, infatti, di per se stesso un’ammissione della loro sfiducia nella volontà italiana di collaborare ad una rottura dell’equilibrio europeo. La procedura sprezzante adottata dagli alleati era tale da consentirci l’immediata denuncia del trattato per l’inosservanza dell’obbligo di una preliminare consultazione; tuttavia, nell’ignoranza degli impegni assunti con la firma di un patto, il cui contenuto era un geloso segreto delle cancellerie, l’opinione pubblica italiana visse momenti di gravissima ansia nel timore che il nostro paese potesse essere automaticamente coinvolto nel conflitto. Pronti e sensibili interpreti dell’istintiva reazione del paese a questa impopolare eventualità furono i repubblicani, che, forti del loro trentennale antitriplicismo, si affrettarono a proclamare la nullità di un documento internazionale sottoscritto dalla monarchia, che non poteva impegnare moralmente la volontà del popolo italiano (documento n. 1). Su questa posizione si schierò compatta la sinistra italiana: i socialisti riformisti di destra, capeggiati da Leonida Bissolati, membri della corrente collaborazionista espulsa dal congresso del partito socialista di Reggio Emilia del 1912, i radicali, i socialisti, gli anarchici e i sindacalisti rivoluzionari. Neppure a destra dello schieramento politico si era concordi nell’accettare l’inevitabilità dell’intervento a favore degli alleati della Triplice. Con un linguaggio molto più pacato di quello della sinistra, che agitava la minaccia dello sciopero generale come risposta a qualsiasi velleità interventista Governativa, ma probabilmente più persuasivo agli orecchi dei responsabili della nostra politica estera, anche importanti settori della borghesia liberale, di cui si faceva interprete l’autorevolissimo «Corriere della sera» diretto da Luigi Albertini, si pronunciarono tempestivamente nello stesso senso. Di fronte a questa larga e varia convergenza neutralista c’erano anche i fautori della fedeltà alla Triplice, rappresentati dai nazionalisti, esigua pattuglia di fanatici imperialisti adoratori della forza, da alcuni organi di stampa conservatori, come il «Giornale d’Italia», portavoce dello statista Sidney Sonnino, dagli ambienti militari e di corte, legati a una trentennale consuetudine di amichevoli rapporti con gli alleati e soprattutto con la Germania, e infine dal mondo ufficiale cattolico, tradizionalmente benevolo verso la monarchia asburgica, ma fortemente condizionato dal forte sentimento pacifista delle masse contadine cattoliche. La dichiarazione di neutralità, ufficialmente diramata dal governo Salandra il 3 agosto, corrispose quindi all’attesa della maggioranza degli italiani, ma non appagò nella stessa misura le varie correnti politiche che l’avevano reclamata. Gli sviluppi europei del conflitto, l’invasione tedesca del Belgio neutrale e l’intervento dell’Inghilterra alimentavano, infatti, nuove e più accese passioni. Per i repubblicani la neutralità non poteva essere che il primo passo sulla via di un totale rovesciamento della precedente politica estera, al quale doveva coerentemente seguire il nostro passaggio sul fronte opposto delle nazioni democratiche, identificate con la Francia, l’Inghilterra e il Belgio, in lotta contro il militarismo tedesco e il suo brutale spirito di sopraffazione (documento n. 2). Secondo questa visione, la guerra in corso era, in proporzioni più vaste, la continuazione del processo di liberazione delle nazionalità oppresse iniziato nell’Ottocento, il suo episodio culminante, dal quale non potevamo restare assenti. I protagonisti democratici del Risorgimento erano idealmente presenti sui campi di battaglia della Francia a difesa dei princìpi calpestati dagli eserciti degli imperi centrali. Alle parole seguiva l’azione: gruppi di volontari si arruolavano per la Serbia e contingenti ancora più numerosi accorrevano sotto la prestigiosa bandiera garibaldina in Francia, mentre si progettavano colpi di mano sulle città irredente nello stile risorgimentale del partito d’azione. Questo, in succinto, era il contenuto degli appelli repubblicani alla nazione, che inquadravano gli avvenimenti europei in una nobile, patetica cornice ottocentesca; alla propaganda che faceva perno sulle nostre rivendicazioni territoriali nei confronti dell’Austria aggiungeva poi una più immediata risonanza la voce degli stessi irredenti, fra i quali, in particolare, Cesare Battisti, già membro del partito socialista austriaco, venuto in Italia il 12 agosto, portava una nota di concretezza e un’apertura verso i problemi sociali non priva di fascino anche per i militanti della democrazia sociale, diffidenti della retorica patriottica. La campagna a favore della guerra contro gli imperi centrali cominciava, infatti, a guadagnare aderenti non solo fra i radicali e i socialisti riformisti bissolatiani, che creavano, insieme ai repubblicani, comitati unitari interventisti impegnati a svolgere un’attiva propaganda intessuta di suggestive memorie risorgimentali (documenti nn. 3, 4, 5), ma anche fra i gruppi dell’estrema sinistra, anarchici e sindacalisti rivoluzionari, che vedevano nel conflitto europeo non tanto l’eredità del passato quanto l’epilogo sanguinoso di un sistema e il preludio della rivoluzione mondiale. Tipici rappresentanti di questa conversione bellicista all’interno di gruppi politici istituzionalmente contra- ri alla guerra furono, ad esempio, l’anarchica Maria Rygier, che, reduce dalla Francia, esaltava ai compagni italiani il commovente spettacolo del popolo francese unito nella difesa della patria, e i sindacalisti rivoluzionari Alceste De Ambris e Filippo Corridoni, usciti nel settembre dall’Unione sindacale italiana per fondare una nuova organizzazione, l’Unione dei lavoratori italiani, a carattere interventista. Per il partito socialista, al contrario, la neutralità era un punto fermo, una fondamentale conquista del proletariato italiano che andava accanitamente difesa contro ogni tentazione di avventura militarista da parte della borghesia. In una solenne dichiarazione del 21 settembre, redatta da Filippo Turati, Camillo Prampolini e Benito Mussolini (ma, in pratica, da quest’ultimo) a nome della direzione del partito e del gruppo parlamentare, era ribadita l’antitesi fra guerra e socialismo e, in particolare, l’irriducibile avversione a una guerra «maledetta» in cui gli sbandierati princìpi servivano di copertura ai più sordidi appetiti di conquista. In particolare, il documento socialista si soffermava a sottolineare la natura singolarmente composita assunta schieramento interventista italiano, a cui si erano aggiunti con «disinvolto cinismo» anche i nazionalisti, ormai persuasi dell’inutilità del loro iniziale proposito di spingere l’Italia sul fronte opposto (documento n. 6). Nonostante la fermezza del linguaggio, la posizione del partito socialista era, tuttavia, obiettivamente difficile. Il fondamento del suo pacifismo riposava, infatti, sulla fede nella solidarietà dei lavoratori al di là dei confini delle rispettive patrie, un principio che aveva trovato fin dal 1889 il suo strumento organizzativo e il suo simbolo nella Seconda Internazionale. Ebbene, proprio la socialdemocrazia tedesca, il più forte partito socialista e il modello del socialismo italiano, era venuta clamorosamente meno al suo compito votando, con poche eccezioni, a favore delle spese militari e associandosi addirittura entusiasticamente all’ondata di nazionalismo guerrafondaio che aveva travolto il paese, imitata ben presto dai partiti confratelli delle altre nazioni belligeranti. Il crollo della Seconda Internazionale aveva, ovviamente, messo in crisi anche il socialismo italiano, la cui propaganda pacifista, esposta all’accusa di antipatriottismo da destra, ma ora anche, da sinistra, a quella di ottusa fedeltà a princìpi sconfessati dai fatti, appariva quasi esclusivamente preoccupata di mantenere salde le proprie file, priva insomma di quella orgogliosa fede aggressiva che le sarebbe venuta dalla certezza dell’impossibilità della guerra in una società evoluta (documenti nn. 7, 8, 9). Il disagio serpeggiava, intatti, nelle file stesse del partito, soprattutto fra gli intellettuali, affiorava perfino nelle colonne del quotidiano, l’«Avanti!», dove nella prosa del direttore, Benito Mussolini, il giovane e brillante rivoluzionario romagnolo venuto di prepotenza alla ribalta nel congresso del 1912, si avvertivano sempre più chiari i segni della flessione della primitiva intransigenza neutralista, le prime caute aperture possibiliste, che si definivano infine nella formula della «neutralità attiva e vigilante», proposta in un articolo del 18 ottobre. Mussolini venne subito sconfessato dalla direzione del partito riunita a Bologna dal 18 al 21 ottobre e si dimise dalla carica di direttore del giornale. Il 24 novembre fu espulso dal partito. Fra queste due date era avvenuto il più sconcertante episodio nella vicenda dell’interventismo: il 15 novembre usciva il primo numero del «Popolo d’Italia», il quotidiano fondato dall’ex-direttore dell’«Avanti» ormai convertito al più acceso bellicismo. Da dove provenivano i soldi per questa costosa iniziativa giornalistica? In parte da ambienti industriali interessati nell’industria degli armamenti, in parte da gruppi politici stranieri; ma l’aspetto economico della questione, per quanto rilevante e significativo come testimonianza della notevole spregiudicatezza dell’uomo, passa in seconda linea davanti alle molteplici prove di assenza di scrupoli esibito in seguito dal futuro «duce» del fascismo e alle immediate ripercussioni politiche della sua clamorosa conversione, che aggravava la crisi socialista e dava all’interventismo rivoluzionario un leader prestigioso e indubbiamente abile e un organo di stampa a larga diffusione. Nel mese di ottobre l’interventismo aveva acquistato un sostenitore ancor più valido nel «Corriere della sera», capace di esercitare una larghissima e profonda influenza in strati della borghesia refrattari alla propaganda estremista. Lo schieramento interventista nel paese era così al completo in tutte le sue gradazioni, che andavano dall’estrema destra nazionalista, ai fautori del liberismo puro ostili al protezionismo governativo e ammiratori dell’Inghilterra, al centro democratico, in cui confluivano socialriformisti, radicali, repubblicani e democratici meridionalisti come Salvemini, alla sinistra rivoluzionaria, torbido coacervo d’inquietudini ed intuizioni di esigenze nuove, d’impazienze e idealismi giovanili e di ambiziosi calcoli di affermazione personale. Un elemento comune fra tante impostazioni diverse era costituito dall’avversione per la personalità che da un decennio dominava la scena politica italiana, Giovanni Giolitti, supremo moderatore – o corruttore, come sostenevano i suoi avversari – della vita politica italiana. Giolitti si era momentaneamente tirato in disparte nel marzo 1914, cedendo la presidenza del consiglio dei ministri ad Antonio Salandra, considerato una semplice controfigura destinata a restituire il posto al vero protagonista al momento opportuno, secondo un metodo abitualmente praticato dallo statista di Dronero per levarsi d’impaccio nelle situazioni difficili. Ma questa volta il gioco non riuscì, perché lo scoppio della guerra in Europa offrì al successore l’occasione per sottrarsi alla tutela giolittiana e costituirsi una piattaforma politica autonoma. Dopo la dichiarazione di neutralità, il governo italiano, prima con il ministro degli esteri Antonino Di San Giuliano e poi, dopo la sua morte, con Sidney Sonnino, aveva avviato trattative con l’Austria sulla base dei compensi spettanti al nostro paese in applicazione dell’articolo 7 della Triplice per la rottura dello statu quo nei Balcani provocato dalla guerra con la Serbia. Se l’Austria avesse accolto la nostra richiesta di cedere le terre irredente, sarebbe venuto meno ogni immediato motivo di conflitto, ma le conversazioni procedevano a rilento, in un clima di reciproca diffidenza. Inoltre la prospettiva di una soluzione diplomatica incontrava l’opposizione non solo degli interventisti rivoluzionari, ma anche dei democratici, ostili ai maneggi segreti e desiderosi di conferire alla nostra politica estera una visione europea dei problemi, e infine dei nazionalisti e delle associazioni irredentiste, che auspicavano una definitiva resa di conti con il potente vicino, riparatrice delle umiliazioni della guerra del ’66 (documento n. 10). In questa atmosfera eccitata sopraggiungeva ad attizzare le polemiche la lettera indirizzata da Giolitti all’onorevole Camillo Peano il 24 gennaio e pubblicata sulla «Tribuna» il giorno 2 del mese successivo. In essa lo statista piemontese affermava che l’Italia avrebbe potuto ottenere «parecchio» (o «molto», come suona, invece, la versione pubblicata nelle Memorie giolittiane) senza bisogno di ricorrere alle armi. I neutralismo giolittiano si fondava su una valutazione realistica, anche se pessimistica, delle nostre possibilità: egli era, infatti, convinto della impreparazione del paese a sostenere una lotta, che giudicava (contro l’opinione corrente) lunga e difficile, a pochi anni di distanza dall’impresa libica; inoltre, temeva le imprevedibili ripercussioni della mobilitazione generale sulle strutture ancora fragili dell’Italia. La sua analisi della situazione era, in buona parte, valida, ma suonava come una mortificazione dell’orgoglio nazionale, e questo era un difetto capitale in un momento cui nell’Europa sconvolta predominava un esasperato nazionalismo. Nell’ambito dei paesi belligeranti costituivano, infatti, un’eccezione figure co me il romanziere francese Romain Rolland, che dal suo ritiro svizzero si proclamava «al di sopra della mischia», deplorava l’incitamento all’odio fra i popoli e si appellava a un superiore ideale di umanità, di cui avrebbero dovuto costituirsi gelosi custodi, nell’ora della lotta fratricida, gli uomini di cultura di ogni paese. Un altro francese, il socialista Jean Jaurès, aveva pagato con la vita il suo pacifismo, assassinata da un fanatico alla vigilia della guerra. Anche in Italia un gruppo di intellettuali, alcuni dei quali di grande prestigio, si propose di controbattere dalle pagine della rivista «Italia nostra» il dilagante dilettantismo politico e il delirio nazionalista. Ne facevano parte, fra gli altri, Benedetto Croce, Cesare De Lollis, Luigi Salvatorelli, Giacomo Barzellotti e Giorgio Pasquali, che però esercitavano solo una limitata influenza in ristretti ambienti culturali, mentre la «parola paurosa e fascinatrice», come l’aveva definita Mussolini, e cioè la guerra inebriava le menti e serviva anche a dare un discutibile programma al movimento d’avanguardia futurista (documento n. 11). Soprattutto la piccola borghesia con ambizioni intellettuali era facile preda di quest’ultime suggestioni. L’attesa del momento fatidico si traduceva in un frenetico attivismo e l’agitazione cresceva via via che l’idea dell’intervento prendeva corpo anche a livello governativo, come era dimostrato dall’evoluzione del «Giornale d’Italia», vicino, come s’è già detto, al ministro degli esteri Sonnino, e, indirettamente, dall’atteggiamento più flessibile e possibilista dei cattolici moderati, favorito dal miglioramento delle relazioni fra il Vaticano e le nazioni dell’Intesa, ma dettato anche dalla volontà di non esser risospinti verso l’isolamento, rinunciando ai vantaggi conseguiti nel 1913 con il patto Gentiloni di alleanza elettorale con i liberali. Per gli interventisti – e soprattutto per i rivoluzionari – era infatti essenziale che l’entrata in guerra dell’Italia assumesse il significato di una imposizione di una minoranza sugli organi costituzionali: la parola d’ordine era «guerra e rivoluzione» (documento n. 12). La risposta socialista aveva come motto l’opposto grido di «abbasso la guerra», che interpretava il sentimento della maggioranza del popolo italiano, protagonista delle vignette di Giuseppe Scalarini (documenti nn. 13, 14, 15) e già alle prese con le prime, elementari difficoltà che lo sforzo bellico avrebbe caricato, non equamente distribuite, sulle spalle degli umili (documento n. 16). Frattanto il 3 marzo il governo italiano aveva autorizzato l’ambasciatore a Londra, Imperiali, ad avviare concrete trattative con l’Intesa in vista del prossimo intervento. Dopo una vibrata protesta all’Austria per l’inconcludenza delle trattative intavolate da mesi, seguiva la denuncia della Triplice il 3 maggio, quando già le trattative londinesi si erano concluse con la firma del patto segreto del 26 aprile: un documento particolareggiatissimo per quanto concerne le rivendicazioni di confine, ma singolarmente deficiente nel definire la nostra Cooperazione bellica e postbellica con i nuovi alleati. Il 5 maggio, in Occasione dell’inaugurazione del monumento commemorativo della spedizione dei Mille a Quarto, si svolse la grande parata dell’interventismo, a cui conferì il crisma dell’ufficialità Vittorio Emanuele III con l’invio di un messaggio inneggiante a Mazzini e Garibaldi, eroi dell’unità italiana. L’oratore designato per la cerimonia, il poeta Gabriele D’Annunzio, non venne meno al suo compito di rovesciare sull’entusiasmo della folla i fiori della sua squisita eloquenza, degno preludio del diluvio di retorica che avrebbe sommerso l’Italia in quelle che furono definite le «radiose giornate» del maggio 1915. L’ultimo ostacolo sulla strada della guerra era costituito dal Parlamento, la cui riapertura era fissata per il 19 maggio. Qui il perno della situazione tornava ad essere ancora una volta Giolitti, che poteva contare su una maggioranza di deputati a lui fedeli. Egli giunse a Roma con qualche giorno di anticipo per uno scambio di idee con le maggiori personalità politiche, accolto dal significativo omaggio di trecento deputati, che depositarono il loro biglietto da visita nella portineria del suo alloggio romano in segno d’immutata adesione alla sua impostazione neutralista. Bersagliato da violenti attacchi del «Corriere della sera», del «Giornale d’Italia» e dell’«Idea nazionale», additato in innumerevoli comizi e manifesti al disprezzo della nazione come complice dello straniero, servo del Kaiser e nemico della patria, Giolitti diventò immediatamente oggetto di una sistematica campagna di denigrazione, che coinvolgeva lo stesso Parlamento (documenti nn. 17, 18, 19). A lui veniva contrapposto Salandra, assurto da controfigura ad antagonista e insignito del titolo di portavoce della «vera» Italia, che non riconosceva più se stessa nei suoi legittimi rappresentanti parlamentari. Nonostante l’investitura della piazza, il presidente del consiglio presentò al re le dimissioni il 13 maggio, motivandole con la mancanza di concordia fra i partiti costituzionali. La crisi si sviluppò in un clima infuocato, mentre violente dimostrazioni a favore del governo dimissionario si svolgevano in tutta l’Italia in un clima quasi di guerra civile (documento n. 20), sotto gli occhi benevoli della forza pubblica, impegnata a stroncare le contro-dimostrazioni neutraliste. In realtà nessuno dei due protagonisti era all’altezza del ruolo che gli era stato assegnato dalla sorte. Giolitti, interpellato dal re per la formazione di un nuovo ministero, rifiutò l’incarico; Salandra, confermato in carica dal sovrano, ottenne dal Parlamento i pieni poteri e quindi l’autorizzazione a dichiarare la guerra. Così l’Italia entrava nel conflitto, per il momento solo contro l’Austria, il 24 maggio. Nel triennio successivo il popolo italiano smentì le previsioni pessimistiche espresse non solo da Giolitti sulle sue capacità, rimediando in varie occasioni anche alle deficienze dei capi, come nella tragica ora della disfatta di Caporetto. Diverso è invece il giudizio complessivo sulla classe dirigente. L’intervento apparve agli occhi del paese il frutto della sopraffazione di una minoranza decisa e spregiudicata; il Parlamento fu sminuito dinanzi alla pubblica opinione; il re, uscito dal suo riserbo costituzionale, si compiacque di atteggiarsi ad interprete dell’anima nazionale. In apparenza, tuttavia, il «colpo di stato» lasciava le cose inalterate; la vecchia classe politica manteneva saldamente in pugno il potere: sette anni dopo, però, con la marcia su Roma, gli uomini politici dell’Italia sarebbero stati abilmente scavalcati, con il compiacente avallo della monarchia «nazionale», da quelle stesse forze eversive che avevano creduto di poter impunemente manovrare a proprio vantaggio.

Bibliografia

Per una maggiore informazione sull’argomento potranno essere consultate le seguenti opere:

G. Volpe, Il popolo italiano tra la pace e la guerra, Milano, 1940.
L. Albertini, Vent’anni di politica italiana, parte II, vol. I, Bologna, 1951.
P. Pieri, L’Italia nella prima guerra mondiale, Torino, 1965.
L. Ambrosoli, Né aderire né sabotare, Milano, 1961.

Fra le memorie dei protagonisti, oltre al volume citato dell’Albertini:

G. Giolitti, Memorie della mia vita, Milano, 1922.
A. Salandra, La neutralità italiana, Milano, 1928.
Idem, L’intervento, Milano, 1930.
 

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