PONTIGGIA, Giovanni

Tipologia Persona

Intestazione di autorità

Intestazione
PONTIGGIA, Giovanni

Date di esistenza

Luogo di nascita
Erba
Data di nascita
December 7 1885

Biografia / Storia

Nasce a Incino d’Erba (CO) il 7 dicembre 1885 da Carlo e Virginia Tagliabue, fonditore in ghisa. Dopo avere frequentato le prime due classi elementari, si avvia al lavoro come operaio mostrandosi “assiduo”, seppure di carattere “chiuso … indifferente, di poca educazione” e pure “sempre disubbidiente” nei confronti dei genitori.

A tredici anni abbandona la famiglia per recarsi una prima volta in Svizzera a scopo di lavoro. Successivamente ad un suo rientro in Italia ritornerà in Svizzera nel 1902 soggiornando prima a Briga – dove s’impiega come manovale nella costruzione della galleria del Sempione –, poi, dal 1903 a Ginevra e, ciò, nonostante il padre, tramite le autorità italiane cerchi in ogni modo di riportarlo in famiglia. È in questa fase che si avvicina alle teorie socialiste e poi anarchiche, abbandonando la sua osservanza religiosa ed iscrivendosi a Ginevra alla Federazione degli operai metallurgici.

Nel 1906 si trasferisce a Losanna e da qui, dopo essere stato accusato di detenzione di esplosivi in una non ben precisata circostanza – anche perché il P. è di carattere assai solitario – si reca, nel febbraio del 1906, colpito da decreto di espulsione, a Parigi, dove si trattiene per poche settimane. Qui compra una pistola allo scopo di “esercitar[si] al tiro”, e al principio del marzo di quello stesso anno torna in Italia dove viene arrestato dai carabinieri appena messo piede a terra nella stazione del suo paese natale, e trovato in possesso della pistola è denunciato e condannato a cinquanta giorni di prigione per porto abusivo di arma.

Ma chi è P. e com’è visto dalle autorità al suo ritorno in Italia? “Nulla si conosce circa la di lui corrispondenza epistolare … non ha mai collaborato alla redazione di giornali, né risulta che prima del di lui allontanamento dal Regno abbia ricevuto stampati o giornali sovversivi, né che abbia fatto propaganda delle sue teorie. Non è ritenuto capace di tenere conferenze, né risulta che abbia mai preso parte a manifestazioni del partito al quale è ascritto”. Ciò nonostante, in una lettera del maggio successivo, il prefetto di Como, scrive al Ministero dell’Interno una preoccupata lettera, affermando che “per quanto manchi ancora la prova … una quantità di indizi fanno fortemente ritenere che l’anarchico Pontiggia si sia recato in Italia, spontaneamente, o sorteggiato, per tentare di compiere un atto delittuoso contro Sua Maestà” e proponendo un premio e la più alta lode per il Carabiniere la cui “zelante opera” e la “sagacia” hanno permesso di arrivare a queste conclusioni. E un anno dopo lo stesso prefetto annota che “fu gran ventura se tale criminoso esecrando attentato, pel quale egli tutto aveva predisposto e preordinato non fu potuto attuare per la vigilanza effettuata al suo riguardo”. Difficile stabilire, in assenza di maggiori approfondimenti se fosse reale o solamente presunta, la possibilità che P. portasse a termine il progetto che gli si attribuiva, ma da questo momento egli sarà considerato un anarchico pericoloso e “d’azione, essendo di carattere impulsivo”, e “incessantemente e rigorosamente vigilato” da agenti in borghese con una assiduità rara ed eccezionale. I rapporti sul suo conto sono dettagliati e quotidiani, o anche più frequenti, e dimostrano un continuo controllo sulla vita, sugli spostamenti e sui rapporti del P. tanto che questa continua pressione ne fa un isolato a cui è reso impossibile persino mantenere un lavoro. Proprio perché la sua figura è in ambienti provinciali vista con diffidenza per le informazioni che ovviamente si diffondono sul suo conto, egli si impiega senza continuità in varie imprese metallurgiche dell’alta Brianza e del lecchese, e partecipa, sporadicamente, agli scioperi del settore senza rivestire alcun ruolo di particolare evidenza. Nel settembre del 1907, dopo essersi trasferito per l’impossibilità di lavorare, ad Intra, nel varesotto, dopo un ulteriore licenziamento per “l’impressione” che le voci sul suo conto provocano nel suo datore di lavoro, la prefettura comasca lo considera “esacerbato” e ne annota i tentativi di far perdere le proprie tracce agli agenti, al fine di occuparsi in imprese della zona e, in seguito, la volontà di espatriare verso Nizza o Parigi, frustrata dal non potere ottenere i necessari documenti. Nonostante “l’attivissima vigilanza”, per altro, la stessa prefettura rileva come P. non abbia “modo di manifestare le sue teorie e nulla vi [sia] da eccepire sul suo conto”.

Nel dicembre del 1909 riesce ad emigrare e si trasferisce a Buenos Aires dove entra in contatto, per la prima volta, con un gruppo anarchico, quello denominato “Il Ribelle”, ed in particolare con Arduino Tognetti, Giuseppe Mascherini e Battista Assandri, e in questo ambiente “suole raccontare la sua pretesa storia di persecuzioni e di angherie da parte della polizia italiana che lui si compiace di chiamare Sabauda e che lo avrebbe maliziosamente allontanato dalla Patria e non sa celare i sentimenti di odio e di vendetta verso la Casa Regnante”. Nella capitale argentina rimane fino al luglio 1910 quando in seguito all’attentato dinamitardo al Teatro Colon – pur non essendone coinvolto -, viene colpito da decreto di espulsione ed è costretto al ritorno in Patria. Nell’impossibilità di trovare una fissa occupazione P. impianta un piccolo laboratorio nella propria abitazione svolgendo lavori meccanici per conto terzi e quindi spostandosi frequentemente in bicicletta o in treno nelle province comasche e a Milano.

È in uno di questi spostamenti, che, nel novembre del 1911 a Milano, esasperato dalla vigilanza costante di due agenti, li aggredisce verbalmente e si reca al quotidiano «Il Secolo» per denunciare la propria condizione. È dal tragicomico resoconto che il periodico farà del successivo processo, che abbiamo una descrizione della situazione in cui il P. è costretto a vivere ormai da cinque anni. Egli non solo viene “seguito” dagli agenti, sempre gli stessi, cui è stato affidato, ma da questi “accompagnato”; “non solo lo pediniamo” – raccontano gli agenti – “ma ci uniamo a lui e camminiamo al suo fianco … gli paghiamo da bere e da mangiare a patto che non ci tradisca”. A questo punto, esasperato, il P. aveva strillato: “Sono io che pago da bere a voi perché mi lasciate andare. Nessuno di voi mi ha mai pagato nulla, senza che io gli abbia reso il contraccambio!” (Giornata disastrosa per la P. S.. L’Anarchico pericoloso, «Il Secolo», del 18 mar. 1911). Perfino un tentativo di espatrio a New York, nel giugno successivo, fallirà miseramente, poiché P., imbarcatosi a Napoli e dopo venti giorni di viaggio, appena sbarcato, sarà subito reimbarcato coattivamente per l’Italia.

Nel 1913 le autorità del circondario di Erba riferiscono al sottoprefetto di Lecco che egli “non può più ritenersi tanto pericoloso da giustificare una così stretta sorveglianza” e si decide quindi “mantenendosi ed anzi migliorando la vigilanza su di lui”, di ridurre ad un solo agente la sua “scorta”, anche in funzione di una riduzione dei costi. Sempre vigilato P. vivrà negli anni successivi nelle medesime condizioni trasferendosi per alcuni periodi nella zona di Torino (1917-1919). In seguito egli si stabilisce a Cassina Mariaga, presso la casa paterna e pur continuando a professarsi anarchico, “mantiene una buona condotta … vivendo una vita calma, dedita esclusivamente al lavoro e alla famiglia”; dal 1924 manifesta segni di demenza che comunque non gli impediscono di lavorare.

Dal 1931 non viene più seguito dalle autorità competenti. Il ruolo di P. è senz’altro quello di una figura minore, che nulla apporta né in termini di militanza, né tanto meno di elaborazione teorica, al movimento anarchico, del quale egli si considerava esponente ma all’interno del quale non ha nessuna apparente relazione e senz’altro alcuna influenza. È utile, per altro, a comprendere la vera e propria ossessione che le autorità erano in grado di sviluppare nei confronti di personaggi ritenuti capaci di agire in modo da perturbare l’ordine pubblico. Il fascicolo personale del P. oltretutto, proprio per l’eccezionale assiduità della vigilanza mantenuta per oltre un decennio nelle forme che si sono descritte, permette di comprendere piuttosto dettagliatamente le modalità di gestione logistica del sistema di fiduciari che attorno a lui si era impostato. Nel giugno del 1945 interviene, in qualità di rappresentante del Gruppo comunista libertario di Erba, al Convegno interregionale della Federazione comunista libertaria Alta Italia. S’ignorano data e luogo di morte. (M. Granata)

Fonti

Fonti: Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, ad nomen.

Bibliografia: Federazione Anarchica Italiana, Congressi e Convegni (1944-1962), a cura di U. Fedeli, Genova, Libreria della F.A.I., 1963, p. 34.

Codice identificativo dell'istituzione responsabile

181

Note

Paternità e maternità: Carlo e Virginia Tagliabue

Bibliografia

2004

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