COSTA, Andrea

Tipologia Persona

Intestazione di autorità

Intestazione
COSTA, Andrea

Date di esistenza

Luogo di nascita
Imola
Data di nascita
November 29 1851
Luogo di morte
Imola

Biografia / Storia

Nasce a Imola (Bo) il 29 novembre 1851 da Pietro e Rosa Tozzi. La sua è una famiglia cattolica praticante, di modeste condizioni. Il padre (che aveva il cognome in origine Casadio) è un esposto e assume il cognome Costa per una probabile affiliazione, lavora come servitore della famiglia Orsini e apre poi un piccolo commercio. A Imola l’industria è in decadenza. In campagna risiedono in gran parte coloni indebitati e braccianti disoccupati. Nel 1871 il territorio imolese denuncia il 77 per cento di analfabeti. Andrea frequenta le scuole elementari gestite da un sacerdote, nel ginnasio comunale riceve da un altro sacerdote lezioni di educazione morale. Presto si pone “nella forma più istintiva” domande sull’uguaglianza umana. Negli anni del liceo, gli vengono aperti nuovi orizzonti dall’insegnante di fìsica, e C. si avvia alla conoscenza del pensiero positivista e materialista. Nelle Annotazioni autobiografìche del 1898, scrive, “La trasformazione della nostra coscienza”, incominciò “dalla parte della religione”: “Il materialismo nella concezione della vita traeva al materialismo nella concezione economica e politica”. Era iniziato “un rivolgimento morale”. Per quei giovani liceali era la fine dei pregiudizi e delle ristrettezze mentali. “Tutto si poteva, tutto si doveva comprendere, spiegare, perdonare. L’intolleranza, l’infallibilità, via. Si combatteva, ma non si odiava [...]. La nostra azione purtroppo limitata dalle circostanze della nostra vita. Ma la nostra proiezione era infinita. Cittadini del mondo e dell’avvenire”. Terminati gli studi liceali, il 17 dicembre 1870 si iscrive all’Università di Bologna come “studente libero”, non avendo la possibilità di pagare le regolari tasse di ammissione, e per mantenersi si impiega come scrivano in un’agenzia di assicurazioni imolese. Lì un impiegato, Paolo Renzi, lo associa, o almeno lo avvicina, all’Internazionale. A Imola e a Bologna compie il suo noviziato, nell’atmosfera che presto si accenderà degli entusiasmi per la Comune, e nel contatto con Carducci, che lo predilige fra i suoi allievi. Frequenta i popolani garibaldini bolognesi e con i più audaci, senza passare attraverso l’esperienza mazziniana, partecipa al Fascio operaio, che da Bologna si diffonde in Romagna, nelle Marche, in Toscana, con contenuti socialisti e simboli massonici. È un socialismo dell’umanità, non di una classe. Ricorda Costa: “Era l’uomo. L’umanamento dell’uomo. E poiché non erano, generalmente condizioni economiche che muovevano, non bisogno, ma principi astratti, si muoveva da essi (da problema morale)”. Da questo fondamento etico il suo socialismo non si staccherà, ne trarrà l’idea di “un grande movimento umano”, che oltrepassa il partito, e risale “naturalmente”, “logicamente”, “al concetto anarchico il più completo, il più umano”. Su questa via è comprensibile che incontri Bakunin, l’anarchia, che respinge il governo dell’uomo sull’uomo come schiavitù, e si intreccia con l’ateismo, sul quale insistono i suoi primi scritti. Nel 1872 tocca a lui, poco più che ventenne, commemorare l’internazionalista Francesco Piccinini, il cui assassinio in oscure circostanze fu come il primo segnale della rottura aperta fra repubblicani e internazionalisti. Non solo egli ha ormai pienamente aderito alla Intemazionale, ma ne è divenuto uno dei dirigenti e degli organizzatori più attivi nella regione che al movimento avrebbe dato la più solida, anzi l’unica base di massa, e che da quel momento per non pochi anni sarebbe stata all’avanguardia del movimento operaio italiano. L’inizio di un’ampia diffusione dell’internazionalismo in Romagna coincide con l’emergere alla testa del movimento, in luogo dei garibaldini E. Pescatori e C. Ceretti, di C. e di L. Nabruzzi. Il congresso di Bologna degli internazionalisti emiliani e romagnoli si esprime in favore delle posizioni di Bakunin, mentre si allacciano contatti con il gruppo napoletano di C. Cafìero e da parte di C. e di altri giovani si oppone un netto rifiuto al tentativo di unificazione delle forze democratiche, avviato da Garibaldi e sostenuto principalmente dall’internazionalista garibaldino Ceretti. Intensissima è l’attività sviluppata da C. a partire da questo momento: segretario del congresso costitutivo della Federazione italiana dell’Internazionale presieduto da Cafìero (Rimini, mag. 1872) e come tale tra i protagonisti del distacco dal consiglio generale dell’Internazionale guidato da Marx e da Engels, C. viene eletto segretario della commissione di corrispondenza della Federazione, si dedica a un’infaticabile opera di propaganda e di organizzazione di tipo cospirativo, e nel mese di settembre partecipa al congresso “antiautoritario” di St.-Imier, al termine del quale si trattiene qualche tempo in Svizzera con Bakunin. Organizza, agli inizi del 1873, iI congresso della Federazione italiana e, arrestato, dichiara fieramente di appartenere all’Internazionale, di condividerne i fini e di essere pronto ad affrontarne le conseguenze. Rilasciato il 20 luglio 1873 è presente alla fondazione della Federazione romagnola dell’Internazionale; poco dopo partecipa a quella della Federazione umbro-marchigiana (che anche in seguito ne avrebbe subito l’influenza: a Iesi e a Fabriano, tra l’altro, C. pubblica la prima serie del periodico «Il Martello»). Nel settembre 1873 è a Ginevra e partecipa al VI Congresso (bakuninista) dell’Internazionale; eletto alla presidenza, C. ha una parte di rilievo, sottolineando come prioritaria l’esigenza dell’azione rispetto ai problemi teorici, e opponendosi vivacemente alle tendenze “operaistiche” presenti nell’Internazionale, all’interno della quale non dovevano esserci secondo lui “distinzioni classistiche”. “Io” dice “non conosco che due categorie di uomini, quelli che vogliono la rivoluzione e quelli che non la vogliono. E vi sono dei ‘borghesi’ che vogliono la rivoluzione certo con maggiore energia e serietà che non certi operai”. Il 1874, anno di grave crisi economica, contrassegnato da un diffuso stato di esasperazione popolare e da numerose agitazioni specie contro la tassa sul macinato, fu prescelto dagli internazionalisti italiani per l’attuazione del loro primo tentativo insurrezionale. Principale organizzatore del moto, che avrebbe dovuto avere come epicentro Bologna e vedere la partecipazione di Bakunin in persona, è C., il quale nei primi mesi dell’anno attraversa l’Italia per “portare la parola d’ordine” ai compagni delle altre regioni. Ma, non adeguatamente organizzato, privo dell’atteso appoggio popolare, e preventivamente controllato dalla polizia, il tentativo fallisce miseramente: C. viene arrestato ancor prima dell’inizio e la sparuta colonna degli internazionalisti romagnoli in marcia su Bologna al comando di Antonio Cornacchia viene catturata senza colpo ferire, mentre Bakunin riesce a dileguarsi, in incognito come era giunto. Il fallimento del moto, seguito da numerosi arresti e persecuzioni poliziesche, provoca la paralisi del movimento internazionalista; C. rimane in carcere per diciannove mesi, in attesa del processo che viene celebrato solo nel marzo 1876. Accusati di aver costituito una “associazione di malfattori”, egli e i suoi compagni riescono a suscitare nel corso del processo un forte moto di simpatia nell’opinione pubblica; grazie al loro contegno, alle testimonianze di personalità come Carducci e A. Saffi e alla brillante difesa dell’avvocato democratico G. Ceneri, vengono infine assolti. C., dopo aver dichiarato di volersi servire del banco degli imputati come di una tribuna e aver ripercorso la storia dell’Internazionale – confermando posizioni già espresse in altra sede – dichiara: “Non è già l’emancipazione della classe operaia solamente quella per cui noi ci adoperiamo, ma l’emancipazione completa del genere umano”. L’assoluzione di C. e dei suoi compagni crea le condizioni per una ripresa del movimento, favorita anche dal clima politico contrassegnato dalla caduta della Destra. Nel 1877 C. non disapprova apertamente il moto di San Lupo guidato da Cafìero, E. Malatesta e P.C. Ceccarelli, ma non vi prende parte. Dopo il suo fallimento, si rifugia in Svizzera per sfuggire all’arresto, mentre una nuova ondata di persecuzioni si stava abbattendo sul movimento internazionalista, disgregandone l’organizzazione. Il periodo che si apre ora è denso di avvenimenti destinati a pesare in modo determinante sulla vita di C., ed è stato a ragione considerato decisivo per la sua evoluzione politica, sebbene taluni elementi possano indurre a collocare negli anni precedenti i segni preannunciatori della sua crisi politica. Primo tra questi è l’incontro in Svizzera con la giovane rivoluzionaria russa A. Kuliscioff, alla quale C. rimane legato affettivamente fino al 1885 (nel 1881 avrà da lei una figlia, Andreina). Non c’è dubbio che tra le cause dell’evoluzione politica di C. determinante è il contatto con l’ambiente del socialismo internazionale. In quest’ambito deve essere sottolineata l’importanza del suo soggiorno in Francia a partire dalla fine del 1877 e dei suoi contatti con il socialismo francese (in particolare con J. Guesde). Arrestato e incarcerato a Parigi (mar. 1878), ha modo di operare in carcere un approfondito ripensamento; dopo la sua liberazione (giu. 1879) allaccia rapporti con l’evoluzionista B. Malon, che grande parte aveva avuto nel distacco delle organizzazioni italiane dal bakuninismo. Questi in breve, gli antecedenti essenziali di quella che è stata chiamata la “svolta” di C.: il 27 luglio 1879, su «La Plebe» di E. Bignami, la sua lettera Ai miei amici di Romagna apre una nuova fase nella storia del socialismo italiano. “Noi ci richiudemmo troppo in noi stessi” scrive C. “e ci preoccupammo più della logica delle nostre idee e della composizione di un programma rivoluzionario, che ci sforzammo di attuare senza indugio, anziché dello studio delle condizioni economiche e morali del popolo e dei suoi bisogni sentiti e immediati. Noi trascurammo così fatalmente molte manifestazioni della vita, noi non ci mescolammo abbastanza al popolo; e quando, spinti da un impulso generoso, noi abbiamo tentato di innalzare la bandiera della rivolta, il popolo non ci ha capiti e ci ha lasciati soli. Che le lezioni dell’esperienza ci approfittino. Compiamo ora ciò che rimase interrotto, rituffiamoci nel popolo e ritempriamo in esso le forze nostre ”. C. non rinnega il passato, ma riconosce legittimità e spazio a quanti volessero proseguire lungo la vecchia via (“saranno le nostre sentinelle perdute”) e auspica il compimento della “pacificazione fra le diverse fazioni di socialisti, incominciata al congresso di Gand”, ma al tempo stesso ammonisce che “la rivoluzione è una cosa seria” e che come tale deve essere preparata. Punti di riferimento della “svolta” erano principalmente la Russia e la Francia. Già si è detto dell’influenza esercitata su C. dalle posizioni della Kuliscioff, influenza consistente, più che in un avvicinamento al “marxismo” e in una attenzione per il movimento operaio tedesco, in una appropriazione delle esperienze del populismo rivoluzionario russo, e la lettera Ai miei amici di Romagna suggerisce un accostamento anche formale alla “andata al popolo” dei narodniki. Né a partire da quel momento sarebbe mai venuta meno nelle concezioni di C. l’affermazione del carattere popolare del movimento socialista. Ma in questo, al di là delle suggestioni esterne, è da vedere pure una corrispondenza con le condizioni sociali italiane, ancora arretrate, e una capacità di aderirvi realisticamente, che fu anche una forza del socialismo italiano. Il “populismo” di C. si accompagna con l’acquisita convinzione che la lotta per il miglioramento delle condizioni politiche ed economiche dei lavoratori sia presupposto indispensabile per ogni azione rivoluzionaria. La ricostituzione dell’Internazionale avverrà in tutti i paesi e anche in Italia sulla base di queste premesse e dello sviluppo di forti partiti socialisti organizzati su scala nazionale. Nel clima politico dell’inizio degli anni Ottanta, caratterizzato da numerose agitazioni per l’allargamento del suffragio, C. si adopera – con l’azione e con gli organi di stampa da lui stesso fondati in questo periodo: la «Rivista internazionale del socialismo» e l’«Avanti!» – per far passare i propri nuovi orientamenti nel movimento socialista. Favorevole alla partecipazione alle competizioni elettorali, C. non giunge d’un colpo alla determinazione di entrare in parlamento, bensì dopo che tale questione sarà risolta positivamente alla conferenza dei socialisti romagnoli del 26 febbraio 1882. Eletto nel mese di ottobre alla Camera nel collegio di Ravenna, presta, primo deputato socialista, il suo giuramento e inizia un’attività parlamentare intensa, caratterizzata da una intransigenza sul terreno dei principi, ma al tempo stesso da una spregiudicata politica di alleanza con l’estrema sinistra borghese per l’attuazione di una legislazione sociale in Italia. Triumviro del Fascio della democrazia assieme a G. Bovio e F. Cavallotti, C. si spinge su questa via al di là di quanto molti dei suoi stessi compagni avrebbero desiderato, suscitando numerose critiche anche nel campo socialista. Della sua attività parlamentare (continuamente interrotta da arresti e periodi di esilio tra una elezione e l’altra) oltre a una presa di posizione in favore della gestione delle ferrovie da parte dello Stato e altre vicende diversamente significative, un aspetto deve essere sottolineato per la sua rilevanza politica, anche ai fini dell’intero sviluppo del socialismo italiano: l’opposizione intransigente alle avventure e alle conquiste coloniali. Dall’occupazione di Massaua al rovescio di Adua la sua voce si alza insistentemente a esprimere l’opposizione delle masse lavoratrici italiane alle imprese di espansione in Africa orientale. Nel 1885 sostiene che “l’Italia che lavora, oso dire l’Italia vera, non vuole politica coloniale [...]. L’Italia che lavora è assetata di giustizia, è assetata di libertà, è assetata di cultura e come base di ogni suo miglioramento intellettuale, politico e morale vuole il miglioramento delle sue condizioni economiche”. Dopo Dogali ammonisce: “II nostro grido è lo stesso di due anni fa. Noi vi diciamo oggi come allora: cessate da queste imprese pazze e criminose [...]. Richiamate le milizie dall’Africa e vi apriremo tutti i crediti che chiederete, ma per continuare nelle pazzie africane, noi non vi daremo, ripeto, né un uomo né un soldo”. La parola d’ordine lanciata da C. non è letterariamente originale: come molti motti del nascente movimento operaio italiano è mutuata dal patrimonio del movimento operaio di paesi dal più avanzato sviluppo sociale: in questo caso dal Keinen Groschen und keinen Mann che A. Bebel aveva levato dalla tribuna del Reichstag contro le spese militari di Bismark. Il grido di C. non solo trova una larga risonanza immediata, ma diviene allora e nei decenni successivi la parola d’ordine del proletariato italiano contro l’imperialismo e la guerra. Infaticabile fu la campagna anticolonialista che, a partire da questo momento, C. viene sviluppando nel parlamento e nel paese, e senza dubbio a lui si deve in misura preminente se l’opposizione alle imprese coloniali diviene patrimonio del proletariato italiano. Intanto, coerentemente con le proprie premesse, C. non esaurisce nell’attività parlamentare il proprio campo d’azione, dedicandosi fin dal 1880 all’obiettivo di costituire un partito rivoluzionario in cui si raccolgano tutte le tendenze del movimento operaio italiano. Prima tappa di questo tentativo è, nell’agosto 1881, il convegno di Rimini delle organizzazioni a lui vicine, dal quale nasce il Partito socialista rivoluzionario italiano (ciò che formalmente accadde al congresso di Forlì del 1884), ma, nonostante i suoi sforzi, esso rimane sempre di fatto una forza politica a base poco più che regionale. Costa scrive nel 1880 il Sogno, una visione utopistica della sua Imola, redenta in futuro dal socialismo; pubblicato e ripubblicato in opuscolo, il Sogno esprime una volta di più le attese e le speranze di liberazione del rivoluzionario proprio alle soglie di un’attività pratica condotta anche attraverso le istituzioni, quasi a sottolineare la non estraneità dei due momenti dell’impegno sociale: quello immediato, della resistenza, del sollievo ai più deboli, della ricerca del lavoro per i braccianti disoccupati, e quello alto e ideale dell’avvenire. In Costa, pur attraverso vicissitudini le più diverse, sulle piazze, nelle carceri, nelle aule del consiglio comunale e del parlamento, mai si disgiungono quei due momenti, mai egli dimentica il suo nobile impegno per una città nuova, per un mondo nuovo. Negli anni ’80 si collocano i ripetuti contatti allacciati da C. con gli operaisti milanesi, e il progressivo avvicinamento tra il suo partito e il partito operaio italiano, di cui, da parte dei romagnoli, una tappa importante è rappresentata dal congresso di Mantova del 1886. A questo scopo, C. abbandona l’alleanza con la sinistra borghese nel Fascio della democrazia (motivo di dissenso con gli operaisti). Il tentativo costiano di promuovere l’unificazione delle forze operaie e socialiste italiane (compresi gli anarchici) non è destinato a sortire effetti concreti, ma la scelta di Mantova come sede del congresso del suo partito non è solo frutto di un tentativo di avvicinamento al partito operaio italiano; Mantova è anche il centro di un forte movimento contadino di ispirazione socialista che due anni prima aveva dato vita al grande moto di “La boje!”. C. si dedica allo sviluppo del movimento cooperativo e di resistenza nelle campagne, legato in particolare ai braccianti di Ravenna. La fisionomia popolare del socialismo romagnolo derivava in gran parte dalla presenza di una cospicua componente bracciantile e contadina. L’immagine più fedele ed essenziale di C. come capo rivoluzionario si trova nei documenti che ci parlano della sua partecipazione alle lotte, fra i braccianti di Ravenna, i risaioli del Bolognese; del modo come egli concepiva i doveri dell’eletto del popolo, come egli sapeva interpretare la sostanza nuova del legame che unisce il capo socialista alle masse. In questo legame di concorde intelligenza e di fedeltà sarà la radice del suo prestigio e del suo successo; qui è anche, principalmente, la misura del valore della sua opera. Dal punto di vista di questo rapporto di massa, infine (ma nel quadro debbono aggiungersi l’attiva presenza di C. a Roma nelle lotte contro la disoccupazione e per lo sviluppo delle organizzazioni degli operai edili della capitale), deve essere anche vista per una buona parte la stessa politica amministrativa di C.: la parola d’ordine “Impadroniamoci dei comuni!” ebbe infatti alla sua origine anche i primi successi cooperativi ed elettorali dei lavoratori nell’Emilia-Romagna. L’interesse verso le amministrazioni locali, e in particolare i comuni, è uno degli aspetti più importanti e originali verso i quali C. indirizza l’attività del psrr. Nonostante che una larga frazione della democrazia di sinistra risorgimentale avesse auspicato un assetto federale dell’Italia liberata dallo straniero, il movimento socialista italiano alle sue origini, di fronte alla realtà dello Stato accentrato e burocratico quale era scaturito dall’unificazione nazionale, non aveva potuto se non riaffermare la pregiudiziale antistatalista. II limitato suffragio, non solo politico ma anche amministrativo, sancito dalle leggi unifìcatrici, aveva contribuito alla affermazione di criteri rigorosamente astensionistici anche in questo campo. Dopo la “svolta” e in misura ancora maggiore dopo la sua elezione alla Camera del 1882, C. comincia a promuovere in Romagna una vasta agitazione che congiungeva la critica della gestione moderata dei comuni, particolarmente in fatto di lavori pubblici, istruzione, opere pie ecc., con la rivendicazione di una nuova legge comunale e provinciale che avesse alla propria base un suffragio più largamente esteso ai ceti popolari. “Noi vogliamo rivendicare al popolo il comune”, afferma a Ravenna in una manifestazione dell’11 novembre 1883”. Vogliamo che il comune non sia più come oggi, il monopolio di una consorteria privilegiata qualsiasi, vogliamo che il diritto fondamentale dei cittadini non abbia più fondamento nella proprietà e nell’istruzione, ma nella natura stessa dell’uomo, nella sua qualità di essere sociale: vogliamo che il comune, casa nostra, sia altresì cosa nostra”. Questa agitazione svolta da C. per rivendicare al popolo il comune “nel quale abbiamo le nostre prime ispirazioni, nel quale incominciamo a sentirci e a diventare cittadini, e i nostri interessi ci appaiono nella loro più immediata vicinanza”, rispecchiava l’itinerario politico e ideologico che egli veniva compiendo in quegli anni. Il comune era per C., come per numerosi altri socialisti italiani che avevano attraversato le sue stesse esperienze, “la” comune, e cioè la possibilità, certo utopisticamente ma fortemente e sinceramente sentita, di trasformare e ristrutturare dal basso la società, investendola nella sua cellula più elementare e vicina, per aggredire in essa i rapporti socialmente e politicamente dominanti. Se rifletteva il suo passato anarchico, questa intuizione metteva in evidenza l’attenzione che, anche in questo campo, egli portava per l’evoluzione del socialismo francese. Sul finire degli anni Ottanta lo sviluppo del movimento operaio poneva ormai inderogabilmente sul tappeto il problema della creazione di un partito socialista. Era questo appunto l’obiettivo che C. si era prefìsso e che fino al 1886 aveva perseguito con parziali successi, eppure il congresso di Ravenna del partito socialista rivoluzionario italiano (1890) mostrò che il socialismo romagnolo era ormai entrato in una fase di ripiegamento. Dopo essere stato il più prestigioso dirigente dell’Internazionale in Italia, il protagonista di una svolta decisiva nella storia del movimento operaio, quale quella del 1879, quindi il primo deputato socialista e il capo del primo partito socialista operante nel paese, C. svolge un ruolo di fatto marginale nelle vicende della nascita del partito dei lavoratori italiani. L’affermarsi della socialdemocrazia tedesca come partito guida del socialismo europeo e la nascita della II Internazionale, sotto la sua egemonia, ponevano di fronte al movimento operaio dei diversi paesi alcune questioni dirimenti sulle quali necessariamente dovevano misurarsi: quella della forma organizzativa del partito, quella della sua base di classe e del ruolo dirigente della classe operaia, quella delle dottrine che dovevano presiedere alla loro azione, dunque del marxismo. La personalità di C., con il suo eclettismo sul terreno dei principi, o per dire meglio con l’ampiezza della sua visione ideale, con la sua istanza largamente unitaria e la sua concezione del partito come federazione di autonome società operaie, socialiste e anarchiche, non poteva non scontrarsi con le nuove tendenze del movimento operaio europeo. Si aggiunga che in Italia il formarsi di una industria moderna e di una moderna classe operaia principalmente in Lombardia, l’esistenza del partito operaio italiano e la presenza a Milano di un gruppo socialista facente capo a F. Turati e alla Kuliscioff, assai aperto alle istanze del socialismo europeo e in particolare tedesco, e orientato in senso tendenzialmente marxista, toglieva a C. e al socialismo romagnolo il loro ruolo egemonico nel socialismo italiano. Così al congresso di Genova del 1892 C. e i suoi seguaci (C. Monticelli, C. Zirardini e altri) non condivisero la definitiva rottura operata nei confronti degli anarchici, e non aderirono al nuovo partito, pur non differenziandosi politicamente in maniera rilevante dalle posizioni del gruppo turatiano. Non molto tempo dopo, comunque, anche i romagnoli si sarebbero uniti al partito, che essi per primi avevano auspicato, ma che da altri era stato creato, e a partire da quel momento C. partecipa attivamente alla vita e alle lotte del PSI, pur senza svolgere un ruolo di effettiva direzione. In prima fila nelle memorabili battaglie ostruzionistiche del 1899, chiamato alla presidenza di tutti i successivi congressi, più volte relatore su questioni di grande importanza, membro della direzione, al congresso nazionale del 1904 egli non esprime alcun voto tra le tendenze che si fronteggiano, giudicando irrimediabilmente compromessa l’unità del partito. Questo suo atteggiamento, sommato al suo glorioso passato che ne faceva una figura ormai leggendaria, fece sì che egli venisse onorato come padre del socialismo italiano. Partecipa e interviene nel 1907 al congresso di Stoccarda della II Internazionale, e nel 1909 viene eletto vice presidente di quella Camera, nella quale per primo aveva portato, 25 anni prima, la parola dei lavoratori, e che tante volte aveva votato l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti. Non ancora vecchio, ma ormai logoro per il peso di un’esistenza vissuta senza risparmio per la causa del socialismo fin dalla più giovane età, muore nell’ospedale di Imola il 19 gennaio 1910. Il suo funerale sarà un grande tributo di popolo e al tempo stesso la creazione o il rafforzamento di un mito. Resta da capire se a un movimento di lavoratori e di progresso si addicano i miti o le semplici memorie. (R. Zangheri)
 

Fonti

Fonti: Biblioteca comunale di Imola, Carte Costa.
Bibliografia: Per una esauriente bibliografia generale degli scritti su e di A.C. fino al 1952, si veda il fascicolo speciale della rivista «Movimento operaio», n. 2, 1952, contenente studi e documenti sulla sua figura, nonché, Ente per la storia del socialismo e del movimento operaio italiano, Periodiciad indicem; Id., Libriad indicem. Per l’ambiente imolese e la formazione di C. si vedano in particolare A. Schiavi, La formazione del pensiero politico di Andrea Costa, «Nuova antologia», n. 2, 1948;  A. Tabanelli (a cura di), La vita sociale e politica imolese dalla «Cronaca Cerchiari»,  «Movimento operaio», a partire dal feb.-mar. 1950;R. Zangheri, La prima fama di Marx in Emilia, «Emilia», n. 25, 1954; Id., Documenti del socialismo giovanile di G. Pascoli, “Studi per il centenario della nascita di G. Pascoli pubblicati nel cinquantenario della morte” (fasc. spec. dell’«Archiginnasio»), v. i, Bologna, 1962. Opere di carattere complessivo su C.: L. Lipparini, Andrea Costa, Milano 1952; L. Basso, Andrea Costa, «Belfagor», n. 1, 1952; A. Schiavi, Andrea Costa, Roma 1955; V. Emiliani, Gli anarchici, Milano 1973, pp. 38-66. Cfr. inoltre: Autodifese di militanti operai e democratici italiani davanti ai tribunali, a cura di S. Merli, Milano-Roma 1958, pp. 22-27 e (per l’attività parlamentare di C.) Ente per la storia del socialismo e del movimento operaio italiano, Attività parlamentare, I-III, ad indicem, ma soprattutto: E. Santarelli, Il socialismo anarchico in Italia, nuova ed. riv. e ampl. Milano 1973, ad indicem; L. Cafagna, Anarchismo e socialismo a Roma negli anni della “febbre edilizia” e della crisi, «Movimento operaio», n. 5, 1952; R. Zangheri, Andrea Costa e le lotte contadine del suo tempo, ivi, n. 1, 1955; R. Battaglia, La prima guerra d’Africa, Torino, 1958, pp. 245 sgg.; E. Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani, Milano, 1961, ad indicem; L. Cortesi, La costituzione del PSI, Milano 1961, ad indicem; G. Manacorda, Il movimento operaio italiano attraverso i suoi congressi, Roma 1963, ad indicem; A. Romano, Storia del movimento socialista in Italia, Bari 1966, ad indicem; E. Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita, Bari, 1967, ad indicem; P.C. Masini, Storia degli anarchici italiani. Da Bakunin a Malatesta, Milano, 1969, ad indicem; L. Cortesi, Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione, Bari, 1969, ad indicem; R. Raniero, L’anticolonialismo italiano da Assab a Adua, Milano, 1971, ad indicem; F. Della Peruta, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Roma 1973, ad indicem; A. Berselli (a cura di), Anarchismo e socialismo in Italia (1872-1892), Roma, 1973; N. Galassi, Vita di Andrea Costa, Milano 1979; M.G. Gonzales, Andrea Costa and the rise of socialism in the Romagna, Washington D.C. 1980; G. Cerrito, Andrea Costa nel socialismo italiano, Roma 1982; Andrea Costa nella storia del socialismo italiano, Bologna [1982]; M. Pelliconi, Andrea Costa: dall’anarchismo al socialismo, Imola 1989; Storia del socialismo italiano, vol. 1 e 2, Torino, 1993 e 1998, ad indicem.

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181

Note

Paternità e maternità: Pietro e Rosa Tozzi

Bibliografia

2003

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