BRESCI, Gaetano Carlo Salvatore

Tipologia Persona

Intestazione di autorità

Intestazione
BRESCI, Gaetano Carlo Salvatore

Date di esistenza

Luogo di nascita
Coiano
Data di nascita
10/11/1869
Luogo di morte
Isola di Santo Stefano
Data di morte
22/05/1901

Attività e/o professione

Qualifica
Operaio tessile

Nazionalità

Italiana

Biografia / Storia

Nasce a Coiano, alla periferia di Prato, il 10 novembre 1869 da Gaspare e Maddalena Godi, operaio tessile. Nonostante B. sia stato oggetto, dopo il regicidio, di curiosità morbosa da parte della stampa nazionale ed estera, e forse proprio per questo, le notizie sul suo conto appaiono talvolta incerte e contraddittorie. Ultimo di quattro fratelli, frequenta le scuole professionali e a dodici anni si impiega come apprendista, diventando poi tessitore specializzato. Nei primi anni Novanta ha diverse esperienze lavorative, che, forse per irrequietezza, forse per una precoce vena di ribellismo a forti tinte libertarie, lo portano a Firenze, a Compiobbi, a Ponte all’Ania, in provincia di Lucca, con frequenti ritorni a Prato. Buona parte degli studi su B. lo vogliono aderire ben presto alle idee anarchiche e attribuiscono segno politico alla condanna a 15 giorni di carcere (poi condonati) per oltraggio alla forza pubblica e rifiuto d’obbedienza subita alla fine del 1892. La schedatura come anarchico gli avrebbe procurato, dopo l’introduzione delle leggi crispine del luglio 1894, il domicilio coatto (a Lampedusa secondo molti, a Pantelleria secondo Galzerano) fino all’amnistia del maggio 1896, quando, ottenuta la libertà condizionale, può ritornare a Ponte all’Ania. Secondo Gremmo, tuttavia, il Bresci inviato al coatto non sarebbe Gaetano ma piuttosto tal Dante, non imparentato col Nostro. Comunque tra il 1896 e il 1897 B. si trova a Ponte all’Ania, dove ha ripreso il lavoro di tessitore, ha varie avventure amorose con operaie del suo stabilimento e una di queste gli dà un figlio nell’estate del 1897. Di bell’aspetto, ha successo con le donne, alle quali dà molta importanza, come dà molta importanza a tutto ciò che può rendere gioiosa la vita. Ad esempio, tiene a vestirsi con eleganza ricercata, tanto da essere chiamato il “damerino”. Insomma B. non ha nulla della personalità “tormentata” e “tenebrosa” del rivoluzionario di fine Ottocento, così come appare ricorrente negli stereotipi di molta letteratura dell’epoca. Alla fine del 1897 lascia l’Italia alla volta degli Stati Uniti, dove arriva agli inizi dell’anno successivo, stabilendosi a Paterson, importante centro tessile nonché ad alta concentrazione anarchica, poi nelle sue vicinanze (West Hoboken). Pure nel breve periodo della sua permanenza negli USA possiamo notare i caratteri della sua personalità “positiva”, consistente nella volontà di adeguarsi allo stile di vita yankee, cercando di imparare la lingua e frequentando la gioventù americana, diversamente dai propri connazionali che tendono a rinchiudersi nella propria comunità. Non a caso intreccia una relazione amorosa con una giovane donna di origine irlandese, Sophie Knieland, da cui ha una figlia, Maddalena. Un’altra, Muriel, nascerà dopo l’attentato. Non appena giunto a Paterson, B. prende contatti con gli anarchici e aderisce al gruppo “Diritto all’esistenza”, acquistando anche delle quote azionarie della casa editrice libertaria Era Nuova. Frequenta assiduamente le riunioni del gruppo e partecipa agli incontri e alle conferenze che, numerose, si tengono nella città e nei centri vicini. Ha modo di conoscere Ciancabilla e Malatesta, durante la permanenza di quest’ultimo a Paterson. Si vuole sia stato B. a disarmare Domenico Pazzaglia, il feritore di Malatesta durante il famoso contraddittorio con Ciancabilla del novembre 1899 a Paterson. Fin qui, tuttavia, la sua vita non differisce in modo significativo da quella di altre centinaia di emigranti italiani di idee socialiste o anarchiche. In altri termini, che cosa induce un emigrato anarchico come tanti, la cui esistenza sembra “normale” – lavoro, famiglia, attività di gruppo – e del tutto aliena dalle suggestioni nichiliste, dall’ansia vendicatrice e dai fervori di redenzione di altri attentatori, a una azione così radicale? Non si può naturalmente rispondere in modo esauriente a tale domanda; è possibile tuttavia delineare qualche ipotesi interpretativa cercando di abbozzare un quadro dell’ambiente nel quale B. matura la propria decisione. Paterson è una sorta di capitale dell’anarchismo italiano negli USA, dove gli anarchici vivono la propria fede in modo appassionato. Dopo i tragici fatti milanesi del maggio ’98, dopo la decorazione assegnata da Umberto i al generale Fiorenzo Bava Beccaris responsabile di una repressione costata un numero imprecisato di vittime (da 80 a 300 secondo le diverse fonti), l’odio per il re, la corte, i militari, la borghesia assume toni estremi e incontrollabili. “Re mitraglia”, “Umberto sporcamano”, così viene chiamato a Paterson il sovrano italiano, nonché, significativamente, “Umberto unico”, omologo di quel “Nicola ultimo” con cui terminerà, qualche anno dopo, l’avventura imperiale dei Romanov. Sentimenti di tal genere sono comuni a tutti gli anarchici, siano essi organizzatori o antiorganizzatori, comunisti o individualisti, e B. non si sottrae certo a questo comune stato d’animo. Punire la protervia della monarchia, e con essa quella dell’intera classe dominante, è intento generale; un intento che si accompagna alla certezza di una imminente rivoluzione, tanto che nel giugno 1899 viene appositamente istituito un Comitato per i moti rivoluzionari, ormai imminenti nell’aspettativa dei promotori. In conclusione, l’implacabile desiderio di vendetta e la certezza del prossimo, quasi ineluttabile, evento riparatore, costituiscono gli ingredienti psicologici di una miscela esplosiva che alimenta l’immaginario dell’anarchico pratese, spingendolo a lasciare gli Stati Uniti per tornare in Italia ad uccidere il re. B. si imbarca a New York il 17 maggio 1900 e, durante la traversata, frequenta assiduamente altri due anarchici, entrambi provenienti da Paterson: l’operaio trentino Antonio Laner e il barbiere elbano Nicola Quintavalle. Fa anche la conoscenza di una giovane donna di origine biellese, Emma Maria Quazza, anch’essa operaia in una filanda di Paterson e di idee socialiste. Giunti a Le Havre il 26 maggio, i quattro si dirigono a Parigi, dove sostano circa una settimana per visitare l’Esposizione Universale. Nonostante l’incertezza di alcune date, quasi certamente agli inizi di giugno i quattro proseguono per l’Italia, dove le loro strade si dividono: B. e Quintavalle si dirigono a Genova e B. proseguirà poi per Coiano, dove sarà ospite del fratello Lorenzo. Nel luglio si reca a Castel San Pietro (da parenti del cognato) e conosce una giovane ombrellaia, Teresa Brugnoli, con cui inizia una relazione. Nel confuso, quasi inestricabile intreccio delle testimonianze successive che ha dato luogo a versioni storiografiche spesso non coincidenti anche nei semplici dati, viene accertata la partenza di B. per Milano (il 22 luglio) e una sosta di due giorni Piacenza. Due telegrammi ricevuti a Bologna e a Piacenza contribuiscono a creare quel clima di mistero che ha sempre avvolto, nella realtà o forse solo nell’immaginazione, i movimenti di B. prima dell’attentato. Giunto nel capoluogo lombardo il 24 luglio, si reca dall’“affittaletti” Ramella in via S. Pietro all’Orto, dove è preso a pensione. Tre giorni dopo raggiunge Monza pernottando in un’altra locanda. Nei due giorni seguenti perlustra i viali adiacenti al parco reale, informandosi sui possibili spostamenti del re. La sera del 29 luglio alle ore 20, 30 comincia il concorso ginnico della società “Liberi e Forti”. Alle 22, 05 il sovrano dà inizio alla premiazione delle squadre vincitrici. Al termine della cerimonia, Umberto i sale in carrozza, ma dopo pochi attimi, mentre ancora si sporge per salutare la folla, B. fa fuoco, da pochi metri, colpendolo tre volte. Pochi minuti più tardi il re è morto e B., scampato a stento al linciaggio grazie al pronto intervento dei carabinieri, è rinchiuso nella caserma di Monza. Si consuma così l’attentato più grave nella storia dell’Italia liberale. B. si assume ogni responsabilità, negando decisamente di avere avuto complici o aiuti di ogni sorta. Subito dopo l’arresto dichiara: “ho attentato al Capo perché a parer mio egli è responsabile di tutte le vittime pallide e sanguinanti del sistema che lui rappresenta e fa difendere [...]. Concepii tale disegnamento dopo le sanguinose repressioni avvenute in Sicilia circa sette o otto ani or sono, in seguito agli stati d’assedio emanati per decreto reale in contraddizione alle legge dello Stato. E dopo avvenute le altre repressioni del ’98, ancora più numerose e più barbare [...] il mio proposito assunse in me maggior gagliardia [...]. Ho commesso questo fatto di mia iniziativa, non sono stato spinto da alcuno; non sono affiliato [...] ad alcuna setta e conseguentemente qualunque ricerca si farà al riguardo, nulla si potrà scoprire perché, ripeto, non esiste alcun complotto, né ho complici”. Durante il processo, svoltosi a Milano un mese dopo, il 29 agosto, B. conferma punto per punto questa versione. La sua linea di condotta non ha mai un momento di cedimento o di contraddizione, rivelando una personalità coerente fino in fondo. La difesa, assunta da F. S. Merlino e dal penalista milanese Luigi Martelli – dopo la rinuncia di Filippo Turati, che visita in carcere l’imputato e che gli suggerisce il nome dello stesso Merlino –, non riesce a sottrarlo al massimo della pena, l’ergastolo, con sette anni di segregazione cellulare. Trasferito in un primo tempo a Porto Longone, nel gennaio 1901, dopo manifestazioni dei detenuti contro il trattamento irregolare inflitto al regicida, B. viene rinchiuso nel penitenziario di Santo Stefano. Pochi mesi dopo, il 22 maggio 1901, viene rinvenuto cadavere nella sua cella, impiccato, ufficialmente suicida, ma, con tutta probabilità, suicidato. Questi gli eventi. Resta da chiedersi se sia possibile accontentarsi delle spiegazioni fornite da B. per illustrare i moventi e la dinamica del suo gesto. La sua rivendicazione di ogni responsabilità, l’ostinata negazione di qualsiasi forma di complicità da parte di chicchessia se rispondono perfettamente al cliché del “giustiziere” solitario assunto da B. e costituiscono un elemento forte dell’immaginario anarchico “sul fosco fin del secolo morente”, non offrono tuttavia una versione convincente. Ma è estremamente difficile e problematico aggiungere elementi che capovolgano il quadro. Nei mesi seguenti all’attentato, la polizia italiana, quasi ossessionata dalla necessità di dimostrare il complotto, indaga ad ampio raggio: tanti sospetti, tante congetture, ma nulla di penalmente rilevante da addebitare a qualcuno. Vengono incarcerate decine di persone, a partire da Laner e Quintavalle, ma senza risultati. Sono coinvolte Quazza e Brugnoli, ma per loro, come per molti altri, tutto si conclude con un nulla di fatto. È tuttavia molto probabile, per non dire certo, che B. abbia dei complici, o meglio dei collaboratori, durante la sua azione. Il primo da prendere in considerazione è l’anarchico biellese Luigi Granotti, detto “il Biondino”, anch’egli giunto in Italia da Paterson solo qualche settimana prima del regicida. Granotti pernotta nello stesso albergo di Bologna nei giorni in cui B. è insieme con Brugnoli e, quasi certamente lo stesso Granotti – autore dei telegrammi spediti a Bologna e a Piacenza – si trova a Monza, armato, la sera dell’attentato. La polizia trova nel parco reale alcune pallottole inesplose di revolver americano, nonché una pistola carica a canna corta. Granotti è subito individuato, ma non catturato: per anni la polizia italiana gli dà la caccia, seguendo piste e segnalazioni che provengono da tutto il mondo, perfino dalla Cina. “Il Biondino” riesce a sfuggire a tutte le ricerche, vivendo sotto falsa identità negli USA, dove morirà nel 1949. Altra figura significativa è quella di Carlo Colombo, portinaio e ciabattino in via San Pietro all’Orto, che, secondo una più tarda testimonianza di Luigi Galleani, era presente a Monza “il giorno fatale”. Ma dopo la carcerazione preventiva, irrimediabilmente minato nel fisico (contrae infatti una pleurite che lo porta alla tisi), Colombo viene scarcerato per mancanza di indizi. Anche un altro anarchico milanese, Mauro Fraschini, viene arrestato per l’occasione e non è da escludere un suo coinvolgimento. Ma altri possono avere collaborato, direttamente o indirettamente, con il regicida, gli stessi Laner e Quintavalle, ad esempio. A Parigi, in quel periodo, risiede l’anarchico Isidoro Besso, anch’egli proveniente da Paterson e impiegato alla Esposizione Universale. È convincente l’ipotesi che si sia incontrato con B. e che si trovi nella capitale francese al fine di costituire un punto d’appoggio per un eventuale espatrio clandestino, per lo stesso B. come per Granotti (cosa che si verifica per il secondo). Vi è infine da segnalare in quei giorni la presenza a Milano di un altro anarchico, Pietro Raveggi, di ritorno dagli USA, dove è ampiamente conosciuto come propagandista e collaboratore, con lo pseudonimo di “Evening”, de «La Questione sociale». Nonostante il suo alibi venga ritenuto inattaccabile, le coincidenze sono troppe per poter escludere totalmente una sua forma di collaborazione. L’insieme di tutti questi elementi induce a ritenere che il background logistico e ideologico del regicidio sia da individuarsi in una gruppo di anarchici emigrati a Paterson. Essi avrebbero avuto come punti di riferimento Giovanni Della Barile e Alberto Guabello e dietro loro, forse, i noti Francis Widmar e Ciancabilla. Detto questo, il senso ultimo dell’attentato non cambia. B. assume ogni responsabilità, nega ogni complicità e non chiama in causa nessun militante. Il che porta a concludere che, se anche l’attentato, ha avuto una genesi “collettiva”, il suo significato rimane sempre individuale, proprio secondo le modalità che fin dall’inizio sono concepite per la sua attuazione. Naturalmente queste doverose considerazioni, che non possono ritenersi definitive ma che, in qualche modo, devono contribuire a mettere in discussione, senza nessun intendimento dissacratorio, la tradizionale immagine del “corrusco arcangelo della vendetta popolare” (L. Galleani, La fine di Giuda, «Cronaca sovversiva», 23 apr. 1910), non possono chiudere il discorso su B. per due ordine di motivi. In primo luogo perché l’uccisione di Umberto i si inserisce in un contesto più ampio in cui da parte di molti anarchici, di Malatesta in particolare, l’istituzione monarchica viene vista come il primo ostacolo da eliminare per avviare un processo rivoluzionario, magari di concerto con i repubblicani, in Italia e, quindi, non è possibile escludere il fatto che l’attentato sia stato concertato in un ambito più largo. Secondariamente perché il gesto di B. non si consuma nei brevi istanti della morte del sovrano, ma ha una sua storia che si prolunga nel tempo e nella memoria a tal punto che la “biografia dell’immagine”, di come è stata tramandata, riproposta, rivissuta, è forse più importante che non quella di B. stesso. Per ovvie ragioni non ci è possibile affrontare questo tema, ma ci sembra indispensabile sottolineare come l’immagine di B., divenuta in breve un simbolo, il più vivo simbolo della ribellione e del sacrificio, abbia poi avuto una propria vita autonoma e costituito uno dei riferimenti centrali dell’immaginario anarchico post 29 luglio. (M. Antonioli, G. Berti)

Fonti

Fonti: Archivio Centrale dello Stato, Pubblica sicurezza, Atti speciali 1898-1940, b. 1, f. 2, Regicidio Bresci 1900-1905; Archivio dello Stato - Milano, Procedimento penale contro Bresci Gaetano ed altri, relativo al delitto di regicidio in danno di Umberto i di Savoia; F.S. Merlino, La difesa di Gaetano Bresci alla Corte d’assise di Milano, «Il Pensiero», 25 dic. 1903.

Bibliografia: Dizionario biografico degli italiani, Roma [pubbl. in corso], ad nomenIl movimento operaio italiano. Dizionario biografico, a cura di F. Andreucci e T. Detti, Roma, 1976-1979, ad vocem; A. Petacco, L’anarchico che venne dall’America. Storia di Gaetano Bresci e del complotto per uccidere Umberto I, Milano 2000; R. Gremmo, Gli anarchici che uccisero Umberto I°. Gaetano Bresci, il “Biondino” e i tessitori biellesi di Paterson, Biella 2000; G. Galzerano, Gaetano Bresci. Vita, attentato, processo, carcere e morte dell’anarchico che “giustiziò“ Umberto I, Casalvelino Scalo 2001.

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